Treni in pellicola
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Re: Treni in pellicola
Nella tabella di percorrenza si legge P. Empedocle... il primo nome sembrerebbe Agrigento...
Re: Treni in pellicola
sequenza girata a bordo di una carrozza letti imbarcata su una nave traghetto FS
Si tratta di un flm del 1996 intitolato "Italiani".
Due treni si incrociano, nella narrazione: un Palermo-Milano, negli anni ’60, e un Milano-Palermo, nei primi anni ’90. Gli stessi personaggi vivono uno stesso viaggio, ma all’inverso, e fanno il bilancio della propria esistenza, segnata anche in virtù degli eventi del viaggio di tanti anni prima. Tanto rammarico, disillusione e speranze ancora vive, rispetto ad un’Italia che negli anni ’60 mischiava le sue carte per costruire un Paese socialmente più omogeneo.
Il conduttore del wagon lit (Giulio Scarpati) a cui riappare il fantasma (Vanessa Gravina) di un passato malinconico, l’infermiera e il maestro elementare aspirante scrittore (Giuliana De Sio e Roberto Citran) che si lasciano con la stessa subitanea indecisione con cui si sono incontrati e amati, la giovane siciliana (Tiziana Lodato) che baratterà l’amore con la stabilità, l’imprenditore amorale (Ivano Marescotti) che lascia a suo figlio i totem della propria rapacità (l’impresa e l’amante), il prete (Claudio Bigagli) che ha scalato la gerarchia ecclesiastica conservando nostalgica tenerezza per la ragazza madre calabrese (Maria Grazia Cucinotta).
I viaggi ci segnano, questo è il messaggio, e le nostre storie individuali, più o meno riuscite, si compongono nel respiro unico di una collettività vasta e ingiudicabile che vorremmo fosse popolo: gli Italiani. Il treno è protagonista a sua volta, come palcoscenico e contenitore delle tante storie, e per i molteplici richiami nelle inquadrature e nei dialoghi. Proprio la percezione del treno da parte del conduttore della carrozza letto a tanti anni di distanza offre una lettura dello story telling: all’entusiasmo iniziale (“mi piace tutto del treno … un odore pieno di cose, e poi il rumore, mi piace il rumore che non finisce mai … e poi le rotaie sempre davanti che corrono via”) subentra l’amaro disincanto di trent’anni dopo (“i treni sì, quelli non mia hanno mai deluso, ma anche loro hanno un difetto, vanno sempre avanti e indietro, non cambiano mai direzione”).
Le storie dei personaggi, però, non muoiono con la fine del film: si può continuare a immaginare le loro prosecuzioni. Emblematica è l’inquadratura finale della famiglia siciliana che arriva a Milano negli anni ’60 e discende, sola, lo scalone monumentale di Milano Centrale: da quelle scale ricomincerà la loro vita e ancora non sanno se saranno accolti dalla metropoli o solo inghiottiti. Di loro, il piccolo Nino si realizzerà diventando macchinista: lo ritroveremo (Claudio Botosso) proprio alla conduzione della locomotiva negli anni ’90 e sarà l’unico dei personaggi a conservare le immagini sognanti che aveva tanti anni prima (“i binari sembrano d’argento”).
Si tratta di un flm del 1996 intitolato "Italiani".
Due treni si incrociano, nella narrazione: un Palermo-Milano, negli anni ’60, e un Milano-Palermo, nei primi anni ’90. Gli stessi personaggi vivono uno stesso viaggio, ma all’inverso, e fanno il bilancio della propria esistenza, segnata anche in virtù degli eventi del viaggio di tanti anni prima. Tanto rammarico, disillusione e speranze ancora vive, rispetto ad un’Italia che negli anni ’60 mischiava le sue carte per costruire un Paese socialmente più omogeneo.
Il conduttore del wagon lit (Giulio Scarpati) a cui riappare il fantasma (Vanessa Gravina) di un passato malinconico, l’infermiera e il maestro elementare aspirante scrittore (Giuliana De Sio e Roberto Citran) che si lasciano con la stessa subitanea indecisione con cui si sono incontrati e amati, la giovane siciliana (Tiziana Lodato) che baratterà l’amore con la stabilità, l’imprenditore amorale (Ivano Marescotti) che lascia a suo figlio i totem della propria rapacità (l’impresa e l’amante), il prete (Claudio Bigagli) che ha scalato la gerarchia ecclesiastica conservando nostalgica tenerezza per la ragazza madre calabrese (Maria Grazia Cucinotta).
I viaggi ci segnano, questo è il messaggio, e le nostre storie individuali, più o meno riuscite, si compongono nel respiro unico di una collettività vasta e ingiudicabile che vorremmo fosse popolo: gli Italiani. Il treno è protagonista a sua volta, come palcoscenico e contenitore delle tante storie, e per i molteplici richiami nelle inquadrature e nei dialoghi. Proprio la percezione del treno da parte del conduttore della carrozza letto a tanti anni di distanza offre una lettura dello story telling: all’entusiasmo iniziale (“mi piace tutto del treno … un odore pieno di cose, e poi il rumore, mi piace il rumore che non finisce mai … e poi le rotaie sempre davanti che corrono via”) subentra l’amaro disincanto di trent’anni dopo (“i treni sì, quelli non mia hanno mai deluso, ma anche loro hanno un difetto, vanno sempre avanti e indietro, non cambiano mai direzione”).
Le storie dei personaggi, però, non muoiono con la fine del film: si può continuare a immaginare le loro prosecuzioni. Emblematica è l’inquadratura finale della famiglia siciliana che arriva a Milano negli anni ’60 e discende, sola, lo scalone monumentale di Milano Centrale: da quelle scale ricomincerà la loro vita e ancora non sanno se saranno accolti dalla metropoli o solo inghiottiti. Di loro, il piccolo Nino si realizzerà diventando macchinista: lo ritroveremo (Claudio Botosso) proprio alla conduzione della locomotiva negli anni ’90 e sarà l’unico dei personaggi a conservare le immagini sognanti che aveva tanti anni prima (“i binari sembrano d’argento”).
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