Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
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Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
Dieci ore da Trapani a Siracusa: pendolari tra disagi e sporcizia
I viaggi senza fine per la Sicilia con il lenzuolino sul poggiatesta.
Si impiega meno tempo a volare da Palermo a New York. «Appena a bordo stendo un panno sulla poltrona»
Dal nostro inviato Felice Cavallaro
PALERMO — Si impiega meno tempo in aereo da Palermo a New York che non in treno da Trapani a Siracusa perché le Ferrovie nella Cenerentola chiamata Sicilia, lungo questi 400 chilometri pari a meno di cinque ore di macchina, offrono tratte da anteguerra, percorrenze da 10 a 15 ore. E se, perdendo il treno delle 7.06 che impiega appena 11 ore e 32 minuti, il manager americano interessato alle tragedie greche di Siracusa errasse al punto da salire a bordo della carrozza in partenza da Trapani alle quattro del pomeriggio arriverebbe 15 ore e 29 minuti dopo, cioè alle 7 e mezzo del mattino successivo. Ovviamente dopo una notte d’inferno e solo fidando in un perfetto incastro delle coincidenze, scongiurando ritardi e intoppi, frane e guasti ormai all’ordine del giorno. Cliccare su Internet per credere. La stampata con il logo verdolino di Trenitalia sfiora il ridicolo per l’azienda e chi la guida, uscendo fuori dal computer dell’agenzia dove mister Scott Davido ha provato a informarsi prima di noleggiare un’auto, come aveva calorosamente consigliato sin dal primo momento la signorina Maria dal suo banco dell’agenzia di viaggi a due passi dalla Stazione Notarbartolo di Palermo.
Si cancella così l’ipotesi di usare il treno per raggiungere Trapani, le saline, Motia e poi tornare indietro verso Siracusa per tragedie greche che, correndo (si fa per dire) sui binari, rischierebbero di diventare tragedie siciliane. Lasciamo andare in auto mister Scott e consorte, lasciamo scoprire al manager e alla signora Tracy arrivati da Minneapolis l’altro dissesto dell’isola, sfregiata da malridotte strade e autostrade, e saliamo noi a bordo di malandate carrozze, costretti a vere e proprie tradotte, roba da primi binari del Far West, visto che la velocità resta quella della diligenza, o del carretto. La prima amara scoperta riguarda la rivisitazione della geometria. Nonostante la forma triangolare, nella Sicilia chiamata Trinacria le Ferrovie al viaggiatore che si dovesse muovere fra Trapani e Siracusa impongono di percorrere i due lati, da Palermo a Messina e da Messina a Siracusa, anziché tagliare dritto dalla capitale dell’isola verso Catania. No, non si può perché anche chi parte da Palermo per Catania, duecento chilometri, due ore di auto o due e mezza di pullman, viaggia «via Messina centrale», impiegando da 5 ore e 23 minuti a 5 ore e 37, fatta eccezione per quel fulmine d’acciaio che schizza da Palermo alle 8.08 e irrompe nella città dell’Etna alle 11.48, «appena» 3 ore e 40 minuti. È la tratta della «Freccia rotta», come l’ha chiamata polemicamente Giuseppe Castiglione, il presidente della Provincia di Catania, partito dalla sua città con un nugolo di parlamentari bipartisan eletti in Sicilia alla volta di Palermo nello stesso giorno in cui si inaugurava l’alta velocità fra Bologna e Milano. Appunto, «Freccia rossa» contro «Freccia rotta». Un’ora contro cinque.
Una protesta civile per invocare un diverso sviluppo. Opposto a quello visibile a due passi dalle stazioni delle due più grandi città siciliane con piazzali stipati da pullman di linea parcheggiati in terza e quarta fila, in attesa di passeggeri che optano per l’autostrada e non si sognano di salire in carrozza. Fatta eccezione per chi viaggia verso Roma, Milano o Torino e per i tanti pendolari che organizzano ogni giorno una protesta, come ben sa Giacomo Fazio, il presidente del «Comitato Sant’Agata, Palermo, Punta Raisi»: «Stanchi dei continui ritardi, delle soppressioni, della sporcizia, degli aumenti, abbiamo deciso di farci sentire, non solo lamentandoci tra di noi di vetri rotti, aria condizionata che non funziona, puzza ai gabinetti, la porta che non si apre...». Ma ci sarà qualcosa che va? E mentre lasciamo Palermo verso Messina Fazio sorride: «È migliorata la puntualità su quel metrò anteguerra che collega Palermo all’aeroporto. I dirigenti delle Ferrovie si vantano di avere raggiunto il 98 per cento di puntualità. Ma un anno fa i trenini impiegavano 45 minuti e adesso da 60 a 65 minuti. Per 20 chilometri...».
Questo della virtuale puntualità è uno dei paradossi evocati mentre, lasciata Trapani alle 7.06, raggiunta Palermo alle 9.45, dopo quaranta minuti di sosta, ripartiamo per scoprire il deserto delle stazioni intermedie fino a Messina, locali abbandonati, sale d’attesa sprangate, gabinetti disattivati, sterpaglia ovunque, come succede da Lascari a Pollina, da Castelbuono a Tusa. Tutto sotto controllo elettronico, dicono. Col sistema Scc, che sta per «Sistema di comando e controllo», una sorta di sala regìa in quello che fu un tempo lo scalo merci della stazione di Palermo da dove dovrebbe essere monitorato l’intero traffico siciliano, 1.390 chilometri di binari, 160 stazioni. Così può capitare di trovarsi da soli a Pollina, vicino a Cefalù, mentre in una solitudine siderale echeggia dall’alto un metallico «Treno in arrivo...». Avviso vocale che proviene veramente dall’alto, addirittura da un centro specializzato a Bologna. Alta e lontana tecnologia miscelata allo sfascio locale. Perché il software spagnolo che sintetizza la voce di tale «Roberto» non può dare un cuore al computer, ignora che quel solitario passeggero si chiama Francesco Bisconti, che è sordomuto dalla nascita e non potrà mai avvertire il messaggio, come a gesti racconta il malcapitato a un amico che traduce la disavventura: «Non sentivo e una volta sono rimasto su quei binari per due ore...».
Meglio rassegnarsi al disagio e tirar fuori ogni giorno un nuovo libro come fa Adriana Fichera, casa a Capo d’Orlando e ufficio alla Provincia di Palermo, due ore per andare, due ore per tornare, pendolare da otto anni, un lenzuolino in borsa: «Appena arrivo lo stendo sulla poltrona. La pulizia qui è un optional. Mai in bagno. Saranno 150 chilometri, dovremmo impiegare un’ora e mezza e invece capita di arrivare a 3 ore...». Ed estrae il libro del giorno mentre compare il profilo di Villa Cattolica, della Bagheria di Guttuso, la Baaria di Tornatore. Una sorta di viaggio letterario per questa viaggiatrice innamorata della rocca di Cefalù, la città del Mandralisca e del suo Antonello da Messina, delle altre tappe dove resta il tocco di Vincenzo Consolo spesso in vacanza nella sua Sant’Agata di Militello, ovvero di Lucio Piccolo quando si arriva a Capo d’Orlando e sulla costa s’intravede la residenza del poeta, cugino di Tomasi di Lampedusa. Beh, i tempi lo consentono. Meglio distrarsi e leggere lungo questi binari di una Sicilia che sembra ferma. Come se le solfatare fossero ancora piene di carusi, la mafia rurale non fosse stata surclassata da quella urbana, Enrico Mattei stesse per inaugurare il Petrolchimico di Gela. La storia in Sicilia si arresta sui binari. E ha fatto bene mister Scott a noleggiare l’auto per la lontanissima Siracusa dove ha già visto Medea quando arriva il treno da Trapani.
I viaggi senza fine per la Sicilia con il lenzuolino sul poggiatesta.
Si impiega meno tempo a volare da Palermo a New York. «Appena a bordo stendo un panno sulla poltrona»
Dal nostro inviato Felice Cavallaro
PALERMO — Si impiega meno tempo in aereo da Palermo a New York che non in treno da Trapani a Siracusa perché le Ferrovie nella Cenerentola chiamata Sicilia, lungo questi 400 chilometri pari a meno di cinque ore di macchina, offrono tratte da anteguerra, percorrenze da 10 a 15 ore. E se, perdendo il treno delle 7.06 che impiega appena 11 ore e 32 minuti, il manager americano interessato alle tragedie greche di Siracusa errasse al punto da salire a bordo della carrozza in partenza da Trapani alle quattro del pomeriggio arriverebbe 15 ore e 29 minuti dopo, cioè alle 7 e mezzo del mattino successivo. Ovviamente dopo una notte d’inferno e solo fidando in un perfetto incastro delle coincidenze, scongiurando ritardi e intoppi, frane e guasti ormai all’ordine del giorno. Cliccare su Internet per credere. La stampata con il logo verdolino di Trenitalia sfiora il ridicolo per l’azienda e chi la guida, uscendo fuori dal computer dell’agenzia dove mister Scott Davido ha provato a informarsi prima di noleggiare un’auto, come aveva calorosamente consigliato sin dal primo momento la signorina Maria dal suo banco dell’agenzia di viaggi a due passi dalla Stazione Notarbartolo di Palermo.
Si cancella così l’ipotesi di usare il treno per raggiungere Trapani, le saline, Motia e poi tornare indietro verso Siracusa per tragedie greche che, correndo (si fa per dire) sui binari, rischierebbero di diventare tragedie siciliane. Lasciamo andare in auto mister Scott e consorte, lasciamo scoprire al manager e alla signora Tracy arrivati da Minneapolis l’altro dissesto dell’isola, sfregiata da malridotte strade e autostrade, e saliamo noi a bordo di malandate carrozze, costretti a vere e proprie tradotte, roba da primi binari del Far West, visto che la velocità resta quella della diligenza, o del carretto. La prima amara scoperta riguarda la rivisitazione della geometria. Nonostante la forma triangolare, nella Sicilia chiamata Trinacria le Ferrovie al viaggiatore che si dovesse muovere fra Trapani e Siracusa impongono di percorrere i due lati, da Palermo a Messina e da Messina a Siracusa, anziché tagliare dritto dalla capitale dell’isola verso Catania. No, non si può perché anche chi parte da Palermo per Catania, duecento chilometri, due ore di auto o due e mezza di pullman, viaggia «via Messina centrale», impiegando da 5 ore e 23 minuti a 5 ore e 37, fatta eccezione per quel fulmine d’acciaio che schizza da Palermo alle 8.08 e irrompe nella città dell’Etna alle 11.48, «appena» 3 ore e 40 minuti. È la tratta della «Freccia rotta», come l’ha chiamata polemicamente Giuseppe Castiglione, il presidente della Provincia di Catania, partito dalla sua città con un nugolo di parlamentari bipartisan eletti in Sicilia alla volta di Palermo nello stesso giorno in cui si inaugurava l’alta velocità fra Bologna e Milano. Appunto, «Freccia rossa» contro «Freccia rotta». Un’ora contro cinque.
Una protesta civile per invocare un diverso sviluppo. Opposto a quello visibile a due passi dalle stazioni delle due più grandi città siciliane con piazzali stipati da pullman di linea parcheggiati in terza e quarta fila, in attesa di passeggeri che optano per l’autostrada e non si sognano di salire in carrozza. Fatta eccezione per chi viaggia verso Roma, Milano o Torino e per i tanti pendolari che organizzano ogni giorno una protesta, come ben sa Giacomo Fazio, il presidente del «Comitato Sant’Agata, Palermo, Punta Raisi»: «Stanchi dei continui ritardi, delle soppressioni, della sporcizia, degli aumenti, abbiamo deciso di farci sentire, non solo lamentandoci tra di noi di vetri rotti, aria condizionata che non funziona, puzza ai gabinetti, la porta che non si apre...». Ma ci sarà qualcosa che va? E mentre lasciamo Palermo verso Messina Fazio sorride: «È migliorata la puntualità su quel metrò anteguerra che collega Palermo all’aeroporto. I dirigenti delle Ferrovie si vantano di avere raggiunto il 98 per cento di puntualità. Ma un anno fa i trenini impiegavano 45 minuti e adesso da 60 a 65 minuti. Per 20 chilometri...».
Questo della virtuale puntualità è uno dei paradossi evocati mentre, lasciata Trapani alle 7.06, raggiunta Palermo alle 9.45, dopo quaranta minuti di sosta, ripartiamo per scoprire il deserto delle stazioni intermedie fino a Messina, locali abbandonati, sale d’attesa sprangate, gabinetti disattivati, sterpaglia ovunque, come succede da Lascari a Pollina, da Castelbuono a Tusa. Tutto sotto controllo elettronico, dicono. Col sistema Scc, che sta per «Sistema di comando e controllo», una sorta di sala regìa in quello che fu un tempo lo scalo merci della stazione di Palermo da dove dovrebbe essere monitorato l’intero traffico siciliano, 1.390 chilometri di binari, 160 stazioni. Così può capitare di trovarsi da soli a Pollina, vicino a Cefalù, mentre in una solitudine siderale echeggia dall’alto un metallico «Treno in arrivo...». Avviso vocale che proviene veramente dall’alto, addirittura da un centro specializzato a Bologna. Alta e lontana tecnologia miscelata allo sfascio locale. Perché il software spagnolo che sintetizza la voce di tale «Roberto» non può dare un cuore al computer, ignora che quel solitario passeggero si chiama Francesco Bisconti, che è sordomuto dalla nascita e non potrà mai avvertire il messaggio, come a gesti racconta il malcapitato a un amico che traduce la disavventura: «Non sentivo e una volta sono rimasto su quei binari per due ore...».
Meglio rassegnarsi al disagio e tirar fuori ogni giorno un nuovo libro come fa Adriana Fichera, casa a Capo d’Orlando e ufficio alla Provincia di Palermo, due ore per andare, due ore per tornare, pendolare da otto anni, un lenzuolino in borsa: «Appena arrivo lo stendo sulla poltrona. La pulizia qui è un optional. Mai in bagno. Saranno 150 chilometri, dovremmo impiegare un’ora e mezza e invece capita di arrivare a 3 ore...». Ed estrae il libro del giorno mentre compare il profilo di Villa Cattolica, della Bagheria di Guttuso, la Baaria di Tornatore. Una sorta di viaggio letterario per questa viaggiatrice innamorata della rocca di Cefalù, la città del Mandralisca e del suo Antonello da Messina, delle altre tappe dove resta il tocco di Vincenzo Consolo spesso in vacanza nella sua Sant’Agata di Militello, ovvero di Lucio Piccolo quando si arriva a Capo d’Orlando e sulla costa s’intravede la residenza del poeta, cugino di Tomasi di Lampedusa. Beh, i tempi lo consentono. Meglio distrarsi e leggere lungo questi binari di una Sicilia che sembra ferma. Come se le solfatare fossero ancora piene di carusi, la mafia rurale non fosse stata surclassata da quella urbana, Enrico Mattei stesse per inaugurare il Petrolchimico di Gela. La storia in Sicilia si arresta sui binari. E ha fatto bene mister Scott a noleggiare l’auto per la lontanissima Siracusa dove ha già visto Medea quando arriva il treno da Trapani.
La Vita è un Treno (Reportage de IlFattoQuotidiano)
da domani su ilfattoquotidiano.it
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Racconto filmato sulle tratte delle ferrovie italiane abbandonate che trae spunto dai reportage pubblicati su Il Fatto Quotidiano da Antonello Caporale, firma di punta del giornale di via Valadier e affermato scrittore. Caporale ha attraversato l’Italia in un viaggio a tappe, accompagnato da uno dei più apprezzati cineasti italiani, Enzo Monteleone. Il regista, tra le tante pellicole girate, di ‘El Alamein – La linea del fuoco’ e per la tv ‘Il Capo dei Capi’.
‘La vita è un treno’ è insieme un viaggio sentimentale e un atto di denuncia civile. Un percorso lungo tremila chilometri seguendo la traccia della ruggine dei binari delle tratte ferroviarie dismesse. Il treno non è soltanto vettore, ma connettore di comunità, bruco che attraversa le pianure, buca le montagne, raggiunge i paesi. Da Segesta, in Sicilia, a Dogliani in Piemonte, da Fano provincia di Pesaro e Urbino) a Capranica (Viterbo), o lungo la cresta del Reventino in Calabria: sono centinaia le tratte chiuse al traffico, le stazioni deserte, luoghi oggi morti che raccontano una vita che fu. E’ una grande e potente metafora dell’Italia mandata in soffitta, dimenticata, sotterrata dai ricordi, persa alla vista. Di qua corrono a trecento all’ora, di là niente. Di qua investimenti per miliardi di euro, di là solo dismissioni, chiusure anticipate, seggiolini rotti. Un Paese doppio che rinuncia ad avere memoria di sé, sceglie l’asfalto, i viadotti, le opere faraoniche infinite, accarezza ogni scempio come figlio e legittima ogni spreco. E giudica solo il treno come un costo insostenibile, come se il vagone fosse il luogo malefico dove le virtù si trasformano in vizi, i soldi in prebende, gli appalti in clientele. Si perde persino il senso della geografia. Le stazioni abbandonate sono testimoni mute di una distanza che aumenta tra la campagna e la città, la cifra di una maestosa dismissione civile e culturale. Con una narrazione che aiuta a capire, e forse anche a maledire, a commuoversi o soltanto a ricordare la misura delle responsabilità della classe dirigente. Quel che c’era e si è distrutto, quel che si poteva conservare e si è invece lasciato alla ruggine, il colore delle nostre colpe.
Una docu-serie strutturata in 4 puntate da 5-7 minuti l’una, con il montaggio raffinato di Susanna Scarpa e le musiche di Pivio & De Scalzi. Le puntata saranno pubblicate su ilfattoquotidiano.it ogni mercoledì a partire da mercoledì 8 gennaio 2014.
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Racconto filmato sulle tratte delle ferrovie italiane abbandonate che trae spunto dai reportage pubblicati su Il Fatto Quotidiano da Antonello Caporale, firma di punta del giornale di via Valadier e affermato scrittore. Caporale ha attraversato l’Italia in un viaggio a tappe, accompagnato da uno dei più apprezzati cineasti italiani, Enzo Monteleone. Il regista, tra le tante pellicole girate, di ‘El Alamein – La linea del fuoco’ e per la tv ‘Il Capo dei Capi’.
‘La vita è un treno’ è insieme un viaggio sentimentale e un atto di denuncia civile. Un percorso lungo tremila chilometri seguendo la traccia della ruggine dei binari delle tratte ferroviarie dismesse. Il treno non è soltanto vettore, ma connettore di comunità, bruco che attraversa le pianure, buca le montagne, raggiunge i paesi. Da Segesta, in Sicilia, a Dogliani in Piemonte, da Fano provincia di Pesaro e Urbino) a Capranica (Viterbo), o lungo la cresta del Reventino in Calabria: sono centinaia le tratte chiuse al traffico, le stazioni deserte, luoghi oggi morti che raccontano una vita che fu. E’ una grande e potente metafora dell’Italia mandata in soffitta, dimenticata, sotterrata dai ricordi, persa alla vista. Di qua corrono a trecento all’ora, di là niente. Di qua investimenti per miliardi di euro, di là solo dismissioni, chiusure anticipate, seggiolini rotti. Un Paese doppio che rinuncia ad avere memoria di sé, sceglie l’asfalto, i viadotti, le opere faraoniche infinite, accarezza ogni scempio come figlio e legittima ogni spreco. E giudica solo il treno come un costo insostenibile, come se il vagone fosse il luogo malefico dove le virtù si trasformano in vizi, i soldi in prebende, gli appalti in clientele. Si perde persino il senso della geografia. Le stazioni abbandonate sono testimoni mute di una distanza che aumenta tra la campagna e la città, la cifra di una maestosa dismissione civile e culturale. Con una narrazione che aiuta a capire, e forse anche a maledire, a commuoversi o soltanto a ricordare la misura delle responsabilità della classe dirigente. Quel che c’era e si è distrutto, quel che si poteva conservare e si è invece lasciato alla ruggine, il colore delle nostre colpe.
Una docu-serie strutturata in 4 puntate da 5-7 minuti l’una, con il montaggio raffinato di Susanna Scarpa e le musiche di Pivio & De Scalzi. Le puntata saranno pubblicate su ilfattoquotidiano.it ogni mercoledì a partire da mercoledì 8 gennaio 2014.
Re: Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
E' on line il primo video.
Partendo da Avellino, una stazione che apre ad ore, come un ufficio postale, attraversiamo le terre del post- terremoto. Il Ponte Principe a Lapìo, una meravigliosa architettura, una torre Eiffel adagiata su un fianco, che dorme arrugginita. Anche sulle ferrovie si è speculato, si è creato a San Mango sul Calore un inutile polo industriale mai utilizzato. E poi la “Transiberiana d’Italia” il treno che attraversava il Parco Nazionale d’Abruzzo, un treno che un gruppo di volontari appassionati cerca ancora di mantenere in vita.
[Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link]
Partendo da Avellino, una stazione che apre ad ore, come un ufficio postale, attraversiamo le terre del post- terremoto. Il Ponte Principe a Lapìo, una meravigliosa architettura, una torre Eiffel adagiata su un fianco, che dorme arrugginita. Anche sulle ferrovie si è speculato, si è creato a San Mango sul Calore un inutile polo industriale mai utilizzato. E poi la “Transiberiana d’Italia” il treno che attraversava il Parco Nazionale d’Abruzzo, un treno che un gruppo di volontari appassionati cerca ancora di mantenere in vita.
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Re: Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
Micidiale come iniziativa. Inoltre è fatta bene come navigabilità, layout e tutto. Complimenti!
Gualtiero- SOCIO AFS
- Data d'iscrizione : 09.08.10
Re: Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
Intanto è uscito il secondo video, dedicato alla Calabria!
Gualtiero- SOCIO AFS
- Data d'iscrizione : 09.08.10
Re: Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
vi propongo i video al momento disponibili
Puntata Speciale di presentazione
Prima Puntata
Puntata Speciale di presentazione
Prima Puntata
Re: Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
Quarta puntata
Gualtiero- SOCIO AFS
- Data d'iscrizione : 09.08.10
Re: Reportages pubblicati sulla stampa nazionale
anche se parzialmente OT, ho trovato un bel racconto on line ( [Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link] )da cui ho estratto la parte che vi propongo:
"Villa San Giovanni, di solito all’una dopo mezzogiorno, col sole a picco che arroventava le lamiere dei treni e l’animo della gente che li abitava. Dovevamo stare in attesa almeno una quarantina di minuti prima di poter essere imbarcati sul traghetto, perché altri convogli erano arrivati prima del nostro e quindi dovevamo attendere il nostro turno.
I locomotori atti alla manovra di imbarco erano i più belli e potenti che avessi mai visto. Prendevano il treno, lo spezzettavano in cinque tronconi da quattro – cinque vagoni cadauno e lo facevano entrare nella pancia della mastodontica motonave. La più bella era la "Scilla", poi c’era la "Cariddi", la "Messina" e la "Sicilia", orgoglio della flotta navale delle FS. Zia Maria non voleva mai salire su, per "paura che ci rubano i bagagli", e per tutta la durata della traghettata stava lì, nella penombra, e non godeva del fantastico paesaggio che si godeva dalle balconate. Con la mamma o con zia Lucia salivamo su al piano più alto – irresistibile per me, tuttora, la tendenza da andare sempre verso l’alto, chissà – e ci godevamo tutta la traversata, mangiando un arancino e bevendo un sorso di aranciata o di birra. Gli arancini dei traghetti erano famosi per la loro bontà, ormai purtroppo tramontata e diventata solo più un mito e un ricordo. Le potenti eliche della motonave sollevavano lunghe onde spumeggianti, ed ero ammaliato specie quando invertivano il senso di marcia per porsi nella direzione giusta per lo sbarco, a Messina. Passando per il porto, immancabile il saluto alla Madonnina del porto, con la scritta "VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS", ovvero "voi e la vostra stessa città benediciamo".
Lo sbarco a Messina, e ancora un po’ di sosta. Il convoglio a quel punto era ridotto a sei – sette vagoni al massimo, perché una parte si era fermata a Villa San Giovanni, e una parte invece prendeva la direzione di Palermo. Il verde veloce locomotore veniva sostituito da un più lento e marrone. E iniziava il viaggio finale in terra siciliana. Lungo le spiagge vedevo le lampare, le barche dei pescatori con una grossa lampada elettrica o ad olio sulla prua, e le reti dei pescatori stese ad asciugare, pronte per essere riutilizzate di lì a poco. A quel punto era pomeriggio avanzato, e le cittadine lungo il mare pullulavano di auto e motorini, e di gente in camicia bianca candida che usciva nelle strade e si riuniva per prendere una granita fresca, un caffè, o chissà cos’altro. La fermata a Catania era chiamata la "fermata della speranza", perché le zie speravano sempre che venissero a salutarci i figli e i nipoti della loro sorella Corrada – che ci attendeva anch’ella a Siracusa – attesa a volte disillusa, a volte azzeccata. I miei cugini erano belli e baldanzosi, Mimmo in testa, poi Rosario e Patrizia. C’era fra noi un’accesa competizione per chio diventava più bravo e più bello e più grande nel più breve tempo possibile, e di anno in anno la competizione si faceva sempre più accesa ed acerrima.
Le saline di Augusta, la puzza terrificante dello stabilimento Anic di Gela, che le zie chiamavano "la Sincat" non so per quale motivo. E infine, lentamente, il treno infilava la dirittura di Siracusa. Vedevo dal finestrino le rocce calcaree candide punteggiate di sterpi e rovi, poi il Pantheon, e infine la stazione."
"Villa San Giovanni, di solito all’una dopo mezzogiorno, col sole a picco che arroventava le lamiere dei treni e l’animo della gente che li abitava. Dovevamo stare in attesa almeno una quarantina di minuti prima di poter essere imbarcati sul traghetto, perché altri convogli erano arrivati prima del nostro e quindi dovevamo attendere il nostro turno.
I locomotori atti alla manovra di imbarco erano i più belli e potenti che avessi mai visto. Prendevano il treno, lo spezzettavano in cinque tronconi da quattro – cinque vagoni cadauno e lo facevano entrare nella pancia della mastodontica motonave. La più bella era la "Scilla", poi c’era la "Cariddi", la "Messina" e la "Sicilia", orgoglio della flotta navale delle FS. Zia Maria non voleva mai salire su, per "paura che ci rubano i bagagli", e per tutta la durata della traghettata stava lì, nella penombra, e non godeva del fantastico paesaggio che si godeva dalle balconate. Con la mamma o con zia Lucia salivamo su al piano più alto – irresistibile per me, tuttora, la tendenza da andare sempre verso l’alto, chissà – e ci godevamo tutta la traversata, mangiando un arancino e bevendo un sorso di aranciata o di birra. Gli arancini dei traghetti erano famosi per la loro bontà, ormai purtroppo tramontata e diventata solo più un mito e un ricordo. Le potenti eliche della motonave sollevavano lunghe onde spumeggianti, ed ero ammaliato specie quando invertivano il senso di marcia per porsi nella direzione giusta per lo sbarco, a Messina. Passando per il porto, immancabile il saluto alla Madonnina del porto, con la scritta "VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS", ovvero "voi e la vostra stessa città benediciamo".
Lo sbarco a Messina, e ancora un po’ di sosta. Il convoglio a quel punto era ridotto a sei – sette vagoni al massimo, perché una parte si era fermata a Villa San Giovanni, e una parte invece prendeva la direzione di Palermo. Il verde veloce locomotore veniva sostituito da un più lento e marrone. E iniziava il viaggio finale in terra siciliana. Lungo le spiagge vedevo le lampare, le barche dei pescatori con una grossa lampada elettrica o ad olio sulla prua, e le reti dei pescatori stese ad asciugare, pronte per essere riutilizzate di lì a poco. A quel punto era pomeriggio avanzato, e le cittadine lungo il mare pullulavano di auto e motorini, e di gente in camicia bianca candida che usciva nelle strade e si riuniva per prendere una granita fresca, un caffè, o chissà cos’altro. La fermata a Catania era chiamata la "fermata della speranza", perché le zie speravano sempre che venissero a salutarci i figli e i nipoti della loro sorella Corrada – che ci attendeva anch’ella a Siracusa – attesa a volte disillusa, a volte azzeccata. I miei cugini erano belli e baldanzosi, Mimmo in testa, poi Rosario e Patrizia. C’era fra noi un’accesa competizione per chio diventava più bravo e più bello e più grande nel più breve tempo possibile, e di anno in anno la competizione si faceva sempre più accesa ed acerrima.
Le saline di Augusta, la puzza terrificante dello stabilimento Anic di Gela, che le zie chiamavano "la Sincat" non so per quale motivo. E infine, lentamente, il treno infilava la dirittura di Siracusa. Vedevo dal finestrino le rocce calcaree candide punteggiate di sterpi e rovi, poi il Pantheon, e infine la stazione."
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